Il sapore che racconta Palermo: l’antico piatto che mangi spesso e che cela una storia incredibile
Lo sfincione, simbolo di Palermo, nasce tra fede e povertà: un piatto umile diventato identità della città e orgoglio dei suoi forni.
Le origini di un simbolo popolare
Tra i profumi più riconoscibili di Palermo, quello dello sfincione è forse il più identitario. Si diffonde tra i vicoli dei mercati storici, nelle feste religiose e persino la vigilia di Natale, quando i venditori ambulanti, i cosiddetti sfincionari, ancora oggi lo portano in giro gridando: “Chi ciavuru!”.
Ma dietro questa pizza soffice e alta, condita con cipolla, pomodoro, acciughe e formaggio, si nasconde una storia antica e religiosa.
Lo sfincione nasce nel XVIII secolo nel convento delle monache di San Vito, che lo prepararono come pietanza speciale per le festività natalizie. A differenza delle pizze del Nord Italia, la base era morbida e spessa — da cui il nome “sfincione”, derivato dall’arabo isfang, cioè “spugna”. Con pochi ingredienti e tanto ingegno, divenne presto il cibo del popolo, uno dei piatti più rappresentativi della Palermo laboriosa e devota.
Dalle tavole dei nobili ai vicoli dei mercati
Con il passare degli anni, lo sfincione oltrepassò i muri dei conventi per approdare nei forni cittadini. Le donne palermitane lo preparavano in casa, lo lasciavano lievitare lentamente e lo vendevano nei quartieri più popolari, specialmente a Ballarò e alla Vucciria.
Era un piatto che univa le classi sociali: gustato dai più poveri, ma apprezzato anche dai nobili per la sua fragranza e la sua capacità di conservare i sapori autentici della città.
Oggi esistono due varianti principali: lo sfincione palermitano, soffice e profumato di cipolle, e lo sfincione bagherese, bianco e ricco di ricotta e caciocavallo, senza pomodoro. Entrambi rappresentano una cultura gastronomica che non ha mai perso il legame con le radici popolari.
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